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| | IL CANTO DI EMERGENZA di Giulia Rusconi
Con questa lingua aerea che non vuol farsi corpo che non diventa dura abbastanza per penetrarti come meriti, puttanapoesia, per farti inginocchiare e dire la verità che per essere veramente poeti occorre un’intelligenza sovrumana. (Antonio Porta)[1]
[1]A. Porta, Yellow, Milano, Mondadori, 2002, p. 17.
Che cos’è la poesia? La si può definire? La si può catturare, inscatolare, fissare in una forma?
Di volti, la poesia ne ha migliaia e sempre mutanti.
Variano nelle forme, nei contenuti, nel loro significato profondo, nei messaggi che portano alle nostre orecchie.
E’ questa la ricchezza della poesia, proprio il suo essere elastica e ripiegabile, spaziale ed estremamente minima.
Ma che cos’è la poesia, dunque?
Una fugace, ma attenta definizione ce la fornisce proprio un poeta, uno del mestiere: Paul Celan.
Lo fa attraverso una poesia, versi che nel 1967 compone in una clinica psichiatrica nei pressi di Parigi.
A noi rimane un foglietto straccio e vagante, come un fazzoletto nel vento:
Canto d’emergenza di pensieri nato da un sentimento,
che ha dei nomi svegliati dal canto non molti,
spinoso, così, inconfondibile, dalla macchia di duro fogliame, sporge con loro; a te incontro,
spinoso,
vaga un piccolo morire.[2]
[2]P. Celan, Sotto il tiro di presagi. Poesie inedite 1948-1969, tr. it. di M. Banchetti, Torino, Einaudi, 2001, p. 163.
Celan ci dice che la Poesia è un «canto di emergenza», un bisogno armonico che lega i pensieri e il sentimento a dei nomi, alle parole quindi, che affiorano come sull’acqua dal nostro ‘dentro’, dal pulsare del nostro corpo, nomi che vengono «svegliati» in una solitudine spinosa e dura, ma che infine si aprono alla condivisione; e la Poesia viene «a te», con le sue punte aspre, regalandoti un «piccolo morire».
Essa è origine e perdita, è maga dell’elaborazione del lutto per l’abbandono dell’oggetto amato, è dunque consolazione.
Celan ci rende un quadretto geniale, una miniatura in cui condensa diversi punti cardine che girano attorno al significato di Poesia. «Non si potrebbe dire meglio, e con parole più definitive, la necessità della poesia», scrive Bertoni[3] sui versi dello scrittore francese.
[3]A. Bertoni, La poesia. Come si legge e come si scrive, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 8.
Anche altre voci, di altri autori, si aggiungono per dire la loro, per lanciare il proprio sassolino nel vasto bacino dei significati.
Ascoltiamo Pablo Neruda che, tre anni prima della lucida composizione di Celan, pubblica il Memorial de Isla Negra in cui raccoglie la storia della sua vita in versi.
Tra i tanti componimenti contenuti nello spesso volume, ne spicca uno che si intitola La poesia: Fu a quell’età… Venne la poesia a cercarmi. Non so, non so da dove uscì, dall’inverno o dal fiume. Non so come né quando, no, non eran voci, non eran parole, né silenzio, ma da una strada mi chiamava, dai rami della notte, d’improvviso tra gli altri, tra fuochi violenti o ritornando solo, era lì senza volto e mi toccava. […][4]
[4]P. Neruda, Memoriale di Isla Negra, tr. it. di G. Bellini, Firenze, Passigli, 1998, p. 59, (Buenos Aires, 1964).
Neruda si sente chiamato, inseguito, scelto.
La Poesia è una ninfa incantatrice che non ha patria, non ha origine, o forse ce l’ha, ma è ignota e oscura.
Non ha voci o parole, ma non è neppure fatta di silenzi.
Ha un modo suo, solo suo, di nominare chi sceglie e chi desidera.
Neruda si sente attratto dalla strada o tra gli alberi della notte, in mezzo agli amici e alla confusione e poi, infine, anche quando è solo.
Eccola, la Poesia, se la trova finalmente di fronte: non ha un volto perché, come dicevo prima, ne ha mille e forse più, ha volti infiniti ed infinite espressioni, ma lo tocca, lo condanna, lo avvelena.
[…] è uno strano mestiere che ti cerca e si nasconde quando lo han cercato ed è un’ombra con il tetto rotto, ma nei buchi ci sono le stelle.[5]
[5]Ivi, dalla poesia intitolata Panpoesia, p. 129.
Dopo averci cercati, la Poesia a volte si nasconde.
Ma c’è di più: Neruda parla di «mestiere».
Non è solo un sentimento che ci insegue, non è una nuvola di qualche pazzo che compone testi versificati, è un lavoro, un luogo sacro, ma anche impegnativo e bisogna fare sacrifici per accontentarlo e assecondarlo, per timbrare il cartellino come tutti gli impiegati e rispondere se il nostro superiore ci manda a chiamare.
Ha l’aspetto di un’ombra, un non-volto, appunto, indefinito e scuro, fuggente e sinuoso.
Non protegge perché ha «il tetto rotto», è una capanna disagiata, un colabrodo in cui si può soffrire il freddo, in cui passano gli spifferi.
Ma dalle travi mancanti non entra la pioggia, non ci si bagna, non ci si lacera: ci sono le stelle a vegliare sui poeti, ad osservarli con i loro occhietti brillantini, a inseguirli se si perdono nel vacuum che sta sulle nostre soglie.
E il poeta, nella sua casa dal tetto rotto, se ne sta con il naso in su a contemplare il cielo.
Scrive Borges:
Il destino di un poeta è abbastanza curioso.
Deve essere sensibile ad ogni cosa e il suo mestiere è quello di trasformare queste cose in parole, e le parole sono evidentemente dei simboli.[6]
[6]J. L. Borges, Testamento poetico letterario, tr. it. e a cura di A. Bertoli, Firenze-Milano, Giunti, 2004, p. 15. Il testo è tratto dalle conferenze tenute da Borges a Tokyo(aprile 1984) e a Milano (novembre 1984 e novembre-dicembre 1985) e sono le ultime parole che il poeta pronuncia in pubblico (muore infatti a Ginevra nel luglio 1986).
Il poeta quindi deve contemplare, indagare, scavare quello che ha di fronte e poi creare testi simbolici, per dire quello che ha visto, utilizzando la parola, mattone estremamente povero, quando è da solo, ma potenzialmente ricchissimo, se unito ad altri. Si possono infatti costruire mura e poi intere case e dentro le case mettere dei tavoli, delle sedie, dei letti e, infine, delle persone che formano delle famiglie, anche molto numerose.
Questa è la poesia, è il primo mattone appoggiato sul terreno e poi è l’insieme dei mattoni, fino alla cena della domenica con la vita che si allarga.
E sulla potenziale infinità di significato che possono assumere le parole, scrive Orazio:
Il tuo linguaggio risulterà originale se un abile accostamento conferirà un suono nuovo a una parola comune.[7]
[ 7]Orazio, Arte Poetica, I, 46-48.
Ed è così che grandissimi poeti (ricordo Neruda per tutti) parlano di pane e farfalle, boschi e fiabe, fuoco e silenzio, gatti e verdure e riescono a entrare, così semplicemente, negli intimi anfratti di pena e d’amore che ci portiamo sempre appresso.
Ma la Poesia fa di più.
Scardina il linguaggio abituale portandoci direttamente in profondità.
Una riflessione importante a proposito è da fare sul concetto di significante e significato. In un testo in prosa, il significante è solamente un veicolo del significato, un ‘mezzo di trasporto’ con il quale convenzionalmente possiamo indicare un oggetto reale. In poesia, invece, il significante «è a sua volta agente di «significanza» poiché somma alla referenzialità logica degli enunciati la forza materiale, fisica, pulsionale delle sue componenti, al fine di produrre un effetto complessivo (e naturalmente amplificato) di senso»[8].
[8]A. Bertoni, op. cit., p. 13.
Dunque, i versi creano un significato anche attraverso i suoni che li compongono e il significante assume un’importanza notevole poiché la Poesia «produce significato anche attraverso questa materialità, predisposta ad effetti ritmici e musicali di eufonia, di ripetizione di suoni, di sottolineatura e di ricomposizione a posteriori di ètimi verbali non necessariamente coincidenti o armonici rispetto alla referenzialità degli enunciati»[9].
[9]Ibid., corsivo mio.
Questo concetto si può riassumere in una sola parola: fonosimbolismo.
E’ proprio il fonosimbolismo a essere uno degli elementi portanti, se non la caratteristica cardine, del discorso poetico.
La Poesia quindi, tornando ai versi di Neruda, chiama, elegge, ci indica col dito.
Una volta accolta, diventa fatica e sudore, un «mestiere» duro e accidentato.
E riesce a mantenere un equilibro magico fra l’esplosione di sentimento senza alcuna ragione a frenarlo, l’istinto puro, e la dedizione che si deve versare su un lavoro minuzioso ed estremamente complesso.
Ecco cosa ci dice Borges sulla Poesia:
All’improvviso so che accadrà qualcosa […]
Io aspetto e talvolta qualcosa accade. “It happens”, come diceva Whistler. […]
Forse la più sensata affermazione sull’arte è contenuta nelle parole del pittore americano Whistler. “Art happens”, l’arte accade, cioè “l’arte avviene”. […] Non cerco di esprimermi, […] Credo che il solo modo di trovare una cosa sia quello di non cercarla. Il poeta è essenzialmente passivo: riceve, ringrazia, poi fa del suo meglio per trasformare tutto questo in parole.[10]
[10]J. L. Borges, op. cit., pp. 13, 15, 16.
Come Neruda, anche lui sostiene che l’unico modo per ricevere in dono la Poesia sia di non cercarla, ma di aspettare che sia lei ad arrivare a noi.
Come Celan, sa che il suo è un bisogno, sa che sta per avvenire qualcosa che poi, dal suo intimo, dovrà trasformare, attraverso il lavoro che il poeta è chiamato a fare, in parole.
Parole che devono avere la funzione di sassi lanciati in uno stagno, devono creare aloni attorno al loro nucleo, anelli di espansione, reti che si intrecciano con quelle formate dalle parole vicine e con quelle del verso appena sopra, appena sotto o ancora più distanti.
E la poesia intera deve avere l’aspetto di una canzone, creare un assetto armonico ed essere evocativa, portarci in terre lontanissime che nemmeno esistono o nel fondo di noi, dove ci sono voci e silenzi che nemmeno conosciamo.
E’ per questo che la parola è la più potente arma del mondo e può qualunque cosa.
… Tutto quel che vuole, sissignore, ma sono le parole che cantano, che salgono e scendono… Mi inchino dinnanzi a loro… Le amo, mi ci aggrappo, le inseguo, le mordo, le frantumo… Amo tanto le parole… Quelle inaspettate… Quelle che si aspettano golosamente, si spiano, finché ad un tratto cadono… Vocaboli amati… Brillano come pietre preziose, saltano come pesci d’argento, sono spuma, filo, metallo, rugiada…
Inseguo alcune parole… Sono tanto belle che le voglio mettere tutte nella mia poesia…
Le afferro al volo, quando se ne vanno ronzando, le catturo, le pulisco, le sguscio, le preparo davanti il piatto, le sento cristalline, vibranti, eburnee, vegetali, oleose, come frutti, come alghe, come agate, come olive… E allora le rivolto, le agito, me le bevo, me le divoro, le mastico, le vesto a festa, le libero… Le lascio come stalattiti nella mia poesia, come pezzetti di legno brunito, come carbone, come relitti di naufragio, regalo dell’onda… Tutto sta nella parola… […] Hanno ombra, trasparenza, peso, piume, capelli, hanno tutto ciò che s’andò loro aggiungendo da tanto rotolare per il fiume, da tanto trasmigrare di patria, da tanto essere radici… Sono antichissime e recentissime… Vivono nel feretro nascosto e nel fiore appena sbocciato…[11]
[11]P. Neruda, Confesso che ho vissuto, tr. it. di L. Lamberti, Torino, Einaudi, 1998, p. 68, (Santiago, 1974).
L’ode alle parole che scrive Neruda nella sua autobiografia, l’amore incondizionato che si sprigiona da questa breve pagina lirica, mi colpisce.
Il poeta cileno viaggia nell’universo dei termini e per descriverli ci gioca, li rigira, li estremizza, li sussurra, abusa di loro.
Li rende vacui e fisici, fatti d’aria e di carne, di roccia o liquidi.
Mi colpisce perché dà prova della sua forza, del controllo che possiede nei confronti della lingua.
Non ha paura delle parole, Neruda, le adotta e le ama, le usa con il cuore e con la pancia.[12]
[12]«Chi decide i versi più corti o più lunghi, più stretti o più larghi, più gialli o più rossi?
E’ il poeta che li scrive a deciderlo.
Lo determina con la sua respirazione e con il suo sangue, con la sua sapienza e la sua ignoranza, perché tutto ciò entra nel pane della poesia.», ivi, p. 348.
Ma sono una lama a doppio taglio.
Le parole che Neruda coccola possono diventare per qualcun altro distruttive e massacranti.
Il «mestiere» del poeta può risultare difficile e doloroso.
Antonio Porta ce ne dà un esempio:
Come tutto può accadere all’improvviso così il canto si spegne schiacciato dal silenzio all’improvviso ritorna risuona vicino risale dalla gola fino al ventre ma nelle pause hai perso due dita disperato un occhio ti è caduto nel piatto.[13]
[13]A. Porta, op. cit., p. 82.
La Poesia si prende la libertà di andarsene quando meno ce lo aspettiamo; ci resta il silenzio da gestire, un silenzio che pesa perché è assenza di lirica, è ‘nulla’ e non è colmabile.
La Poesia però ritorna «all’improvviso» e, ‘nerudianamente’, dalla gola arriva al ventre, sono le viscere a dettare i versi che esplodono dal silenzio di cimitero che ci aveva costretti.
Le «pause», però, sono atroci e lasciano i segni terribili del loro passaggio, lasciano i nostri corpi malandati e sofferenti: le dita si staccano dalla mano, un occhio esce dall’orbita scivolandoci in piatto.
Nonostante le ferite, questa Poesia capricciosa viene accolta di nuovo, quasi a braccia spalancate, come un amante traditore e bugiardo che viene perdonato e riammesso nel letto nuziale.
Ma Porta riserba un rancore per le parole passeggere, per il loro essere farfalle, per il loro andare e tornare, tradire e amare, prendere e lasciare, di fiore in fiore, e allora eccolo che chiama la sua ‘emergenza’ «puttanapoesia», parola unica, rabbiosa, soffocata e durissima.
Anche Goffredo Parise ci avvisa di questa peculiarità della Poesia.
Senza rabbia, ce lo spiega nell’Avvertenza ai Sillabari[14], racconti brevi e leggeri che egli chiama «poesie in prosa».
[14]G. Parise, Sillabari; mi riferisco all’unione, dietro un’unica copertina, del Sillabario n.I che comprende i racconti dalla A alla F, e del Sillabario n.2 che riprende e si interrompe alla lettera S.
La prima raccolta viene pubblicata da Einaudi nel 1972, la seconda esce con Modadori nel 1982 e vince il Premio Strega.
Nel 1984 esce l’opera riunita, dal titolo Sillabari, pubblicata ancora da Mondadori. L’edizione cui mi attengo è G. Parise, Sillabari, Milano, Adelphi, 2004.
E di Poesia hanno molto, hanno tutto tranne i versi.
Evocano, rimandano, retificano, scuotono, frantumano, commuovono, entrano, trascendono, ci sorridono.
E scrive Parise:
Nella vita gli uomini fanno dei programmi perché sanno che, una volta scomparso l’autore, essi possono essere continuati da altri.
In poesia è impossibile, non ci sono eredi.
Così è toccato a me con questo libro: dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z.
Sono poesie in prosa.
Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato.
E a questa lettera ho dovuto fermarmi.
La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti.
Mi dispiace ma è così.
Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.
Gennaio 1982.[15]
[15]G. Parise, Avvertenza ai Sillabari, cit., p. 12, corsivi nel testo.
Il passaggio ‘obbligato’ tra amore e Poesia, e viceversa, viene qui esplicitato.
Amore che ‘vola e ferisce’, che sa essere estremamente buono e positivo e abissalmente crudo e negativo.
Luogo o non-luogo dove tutto è portato all’eccesso, dove si esagera, dove si scava al fondo.
Dove ci si può finalmente ritrovare oppure perdere, infine, per sempre.
Parole perdute, parole lontane, lettere scritte dal fondo della tua notte in luoghi solitari,
Tutto il peso della tua vita.
Tu percorri questo teatro assurdo, i luoghi attraversati, i muri, lo smarrimento delle parole.[16]
[16]L. Ray, Comme un chateau défait, tr. it. mia, Paris, Gallimard, 1993, p. 19.
L’estraneità emerge da questi versi del poeta francese Lionel Ray.
Una estraneità di solitudine, di parole che non arrivano a completare le nostre fatiche, a sanare i pesi che ci portiamo appresso; cerchiamo di alleggerirli attraverso la Poesia, ma le parole restano «perdute» e «lontane», vengono dalle nostre notti profonde o da posti desolati e deserti.
Quello che rimane da fare è addentrarsi in «questo teatro assurdo» e percorrere lo «smarrimento delle parole» che non consolano, non costruiscono, non tranquillizzano.
Per fortuna, non è sempre così.
Questo smarrirsi in terre desolate che emergono da dentro di noi può trasformarsi in un’esplosione di bellezza, di sicurezza, di pace.
Alla fine di una grande fatica, alla fine di un pellegrinaggio tra i versi dolorosi del «mestiere» di poeta, alla fine, come scrive Neruda: «ancora ho l’aurora / impigliata in ogni tempia».
Con questa ‘aurora’ è possibile tessere ragnatele di velluto in cui adagiare i nostri affanni e in cui catturare per un momento un silenzio e una quiete altrimenti lasciati andare via.
Concludo queste mie riflessioni con un poema di estremo ottimismo sulle sorti della Poesia.
Che essa possa ancora portare un po’ di medicina ai nostri dolori, che possa asciugarci le lacrime, farci crescere quando ci sembra di rimpicciolire, darci forza quando non ne sentiamo più, metterci le ali quando gli eventi o le persone che ci circondano ci schiacciano nel fango.
Che importa se il tuo pugnale
mi si pianta nella schiena?
Ho i miei versi, che sono
più forti del tuo pugnale!
Che importa se questo dolore
prosciuga il mare e oscura il cielo?
Il verso, dolce consolazione,
nasce alato dal dolore.[17] (da web) Edited by marî - 7/10/2017, 17:49
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