UNGARETTI GIUSEPPE nato ad Alessandria d'Egitto nel 1888 e morto a Milano nel 1970 a 82 anni.
Poeta italiano tra i protagonisti europei del rinnovamente delle forme poetiche nella prima metà del Novecento.
Nato da genitori lucchesi, dopo gli studi secondari si trasferì a Parigi.
Qui frequentò la Sorbona, dove ebbe modo di ascoltare i corsi di Henri Bergson, e partecipò alla vita dei circoli dell'avanguardia artistica, conoscendo Guillaune Apollinaire, Max Jacob, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Ardengo Soffici.
Inteventista convinto, allo scoppio della prima GUerra monidale si trasferì a Milano e nel 1915 si arruolò come volontario, combattendo come soldato semplice nelle trinceee del Carso e poi sul fronte francese, nella Champagne.
Furono momenti fondamentali per l'esperienza poetica di Ungaretti, la quale nasce dall'incontro tra uno stile analogico, derivato dalla poesia del simbolismo francese, e la coscienza della fragilità dell'uomo di fronte alla morte; è proprio questa consapevolezza, tuttavia, a consentire la conquista di una nuova autenticità e di una rinnovata condizione di fusione con i propri simili e con la natura.
A Udine, nel 1916, uscì la prima raccolta di versi di Ungaretti, Il porto sepolto, primo nucleo di quella che poi sarebbe diventata Allegria di naufragi (1919), in seguito intitolata semplicemente L'allegria.
Si tratta di una delle opere più importanti della poesia italiana di questo secolo, anche per la novità delle soluzioni metriche e sintattiche, per l'invenzione in particolare di quei "versicoli", proverbialmente brevi, che conducono alle conseguenze più radicali le ricerche del cosiddetto "verso libero".
Nel 1919, dopo l'Armistizio, Ungaretti tornò a Parigi, dove pubblicò i versi in francese di La guerre e sposò Jeanne Dupoix, da cui avrebbe avuto tre figli.
Subito dopo aderì al fascismo, divenendo corrispondente da Parigi del giornale di Benito Mussolini "Il Popolo d'Italia" e lavorando presso l'ufficio stampa dell'ambasciata italiana.
Nel 1920 si trasferì a Roma, dove lavorò per dieci anni presso l'ufficio stampa del Ministero degli Esteri.
Nel 1923 la seconda edizione del Porto Sepolto uscì con una prefazione di Mussolini.
Nel 1933 fu pubblicata la raccolta poetica Sentimento del tempo, che segnò il ritorno a forme metriche più classiche, in una direzione che avrebbe costituito ilmodello formale per il nascente ermetismo.
Nel 1936 Ungaretti si trasferì con la famiglia in Brasile, accettando l'offerta dell'Università di San Paolo, che gli affidò la cattedra di letteratura italiana.
Nel 1939 la vita di Ungaretti fu segnata dalla tragica morte del secondogenito Antonietto (nato nel 1930).
Tornato in Italia nel 1942, insegnò letteratura italiana contemporanea a Roma.
Intanto pubblicava le edizioni definitive dell'Allegria e di Sentimento del tempo, cui si aggiunsero Il dolore (1947), La terra promessa (1950), Taccuino del vecchio (1960).
Ungaretti svolse anche una notevolissima attività di traduttore di poesia: si ricordano le versione dei Sonetti di Shakespeare e di versi di Gòngora, Racine, Mallarmé, Blake e Celan.
PRIMO TEMA
SECONDO TEMA
TERZO TEMA
L'amore, visto come fisico e spirituale è tema caro al poeta; è eros in seguito ma che a sua volta insegna la quiete, qui è solo ciò che succede all'appagamento dei sensi ma è serenità interiore è "QUIETE ACCESA".
E' più esatto dire però che l'amore è concepito in tutte le sue accezioni, persino come istinto di conservazione e quindi, come elemento costruttivo e difensivo della vita.
Naturalmente il tema dell'amore si rinfrange su tutti i soggetti che lo forniscono e lo ricambiano.
Di conseguenza la donna, la madre, i figli, il padre entrano nella poesia di volta in volta come immagini insieme autobiografiche ma anche universali.
E se nella donna il poeta rivede l'unica donna amata e rievoca momenti ora focosi ora teneri tuttavia essa è termine trasfigurato e diviene creatura poetica specie quando la bellezza di lei si fonde con la bellezza del paesaggio.
Così la madre viene vagheggiata nella tenerezza d'amore che dona al figlio e l'amore del padre erompe tragico nei versi scritti per la morte del figlio.
Il tema della morte non si offre all'improvviso a Ungaretti, ma è presente sempre e anzi via via si muta e si approfondisce in base alla maturità del poeta.
Ma è proprio in questo momento che per un istante balena in lui la domanda:
"Perchè bramo Dio?" sorprendente se si considera che non ha ancora trovato la morte.
In sentimento del tempo la morte gli appare simile al sogno, oppure, è associata al peccato oppure diventa dolore specialmente quando il poeta rievoca scene che lo hanno direttamente cooinvolto (morte del figlio).
Nella Terra promessa che è un'altra raccolta il tema si fonda con quello religioso e la morte si svuota della sua tragicità per divenire un fatto naturale serenamente accettato.
Ha raccolto tutte le sue opere della maturità in una unica raccolta dal titolo VITA DI UN UOMO
Tre tempi
Tempo della parola
Tempo della frase
Tempo della meditazione
Ermetico
Torna a essere più accosto alla poesia tradizionale
COLONNA3
SAN MARTINO DEL CARSO (agosto 1916)
Un paese devastato dall'artiglieria diviene l'emblema dell'annientamento che la guerra provoca nella natura e, soprattutto, nello spirito.
Osserva, anche in questa lirica, le parole scarnificate, che sembrano uscire come sussulti, le pause, le forti scansioni.
Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca è il mio cuore il paese più straziato
Versi liberi
Di tanti compagni, a lui legati dal reciproco affetto, nato nel dolore e nel pericolo, neppure un brandello è rimasto. (Si deve notare la forte accentuazione di quel tanti, che dà il senso dell'orrendo massacro). Per tutti ha sofferto il suo cuore, divenuto ormai come un immenso cimitero.
Principio della folgorazione, lampo che illumina il buio per un attimo.
Tutta la nostra vita è contingente, viviamo e lavoriamo per costruire l'eterno futuro.
I FIUMI
Mi tengo a quest'albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso in un'urna d'acqua e come una reliquia ho riposato L'Isonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso
Mi acquatto presso un albero mutilato da una granata nemica, immerso in una cavità di forma circolare nel terreno carsico. Questa cavità ha l'aspetto malinconico d'un circo dopo lo spettacolo e guardo il paesaggio tranquillo, le nuvole erranti sollevando l'animo dalla realtà bruta e assurda della guerra. Attraverso questa contemplazione Ungaretti ritrova la propria dignità umana. In una pozza del fiume, l'acqua che scorre leviga il poeta come un sasso di fiume.
Ho tirato su le mie quattr'ossa e me ne sono andato come un acrobata sull'acqua
Il cammino è reso difficile dai sassi sdrucciolevoli del fondo.
Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole
Il poeta si è abbandonato al puro fluire della natura, obliando la sua angoscia d'uomo e ritrovando un sentimento d'adesione alla vita. Con la divisa sporca dal fango di trincea si china per pregare come il beduino.
Questo è l'Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell'universo
Il poeta si immedesima con la vita fluente della natura, si riconosce una docile particella dell'universo.
Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia
Il supplizio del poeta è il non sentirsi in armonia con il creato.
Ma quelle occulte mani che m'intridono mi regalano la rara felicità
Le acque del fiume Isonzo l'amalgamano nella natura e gli donano un attimo di felicità rivivendo i giorni della sua vita.
Ho ripassato le epoche della mia vita
Questi sono i miei fiumi
Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil'anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre
Fiume della Lucchesia, regione originaria della famiglia del poeta.
Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere e ardere dell'inconsapevolezza nelle estese pianure
Vivere i desideri ardenti e indefiniti propri dell'età.
Questa è la Senna e in quel torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto
A Parigi, il poeta, si recò per completare gli studi e in quell'ambiente conobbe meglio sé stesso, si formò artisticamente e spiritualmente.
Questi sono i miei fiumi contati nell'Isonzo
L'Isonzo è il simbolo dell'ultima definitva esperienza che accoglie in sé tutte le altre.
Questa è la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch'è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre.
Scende la notte e la vita del poeta appare come un fiore fragile, fatto di precarietà, di dolore e di presagi di morte.
Il poeta s'è bagnato nell'Isonzo e ha ritrovato n esso la memoria degli altri fiumi, il Serchio, il Nilo, la Senna, legati al suo passato.
L'Isonzo è divenuto l'immagine del perenne fluire della vita, nel quale 'lesistenza d'un giorno e quella di ora si rinconoscono e si confondono.
La lirica è una ricapitolazione di tutta la propria esperienza da parte del poeta, un'intuizione del suo significato essenziale.
Il paesaggio vi appare come un mezzo di rivelazione e scoperta del legame fra l'io e la realtà profonda della natura.
Ques'abbandono alla vitalità cosmica, questo sentirsi docile fibra in armonia con l'universo, confortano il poeta dall'angoscia della guerra, sono il sogno al quale si protende l'ansia d'un esistere pacificato e sereno.
Ungaretti definisce la ragioni storiche e spirituali della rivoluzione da lui portata nel linguaggio, nella metrica, nelle consuetudini espressive della nostra lirica.
Fu una rivolta morale contro i falsi miti e le pose dannunziane e la turgida retorica del Futurismo, la ricerca d'un linguaggio più autentico, che riscoprisse, liberandola dalle deformazioni estetizzanti, la vera vita della coscienza.
Ungaretti lega questa poetica nuova all'esperienza della guerra del 1915-1918, da lui vissuta come combattente, che gli fece cogliere la vita nella sua essenzialità d'amore e di dolore, di angoscia della morte e di bisogno di ritrovare una fraternità umana.
La parola fratelli è qui riscoperta nel suo valore primigenio, assoluto, sottratto alla vacuità del linguaggio convenzionale, indice di rapporti mistificati fra gli uomini.
Quella parola è speranza (la foglia contrapposta al buio), saluto accorato, dignità umana nella sofferena comune, in quanto nella solidarietà del dolore e dell'amore che quella parola ricostituisce, i soldati si ritrovano e riconoscono uomini, non più cose sbattute dalla guerra.
Di questa poesia vi sono due versioni, questa è l'ultima:
FRATELLI (1916)
Di che reggimento siete, fratelli? Parola tremante (sottovoce perchè il nemico non senta) nella notte Foglia appena nata Nell'aria spasimante (atmosfera di guerra) involontaria rivolta dell'uomo presente alla sua fragilità Fratelli(invito alla pace)
Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore
Non sono mai stato tanto attaccato alla vita
Lirica intensissima, pervasa d'un senso allucinato della compresenza della vita e della morte nella realtà disumana della guerra.
E' Natale; il poeta, acquattato nella trincea, scrive lettere piene d'amore ai suoi cari lontani.
Accanto a lui, un compagno massacrato, ed egli si sente compenetrato dall'orrore della sua bocca digrignata, sente le mani di lui, congestionate nello spasimo supremo, penetrate quasi fisicamente nel silenzio della sua anima; e tuttavia, mentre rivive lo strazione di quella morte, si protende con un impeto elementare verso la vita.
Le parole nude, scarnificate, essenziali, esprimono, col loro ritmo franto, un senso di tragicità, ma anche di riscoperta elementare della vita.
Il porto sepolto per Ungaretti è ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile.
Il Porto Sepolto, uscito nel 1916, è la prima raccolta edita da Ungaretti e uno dei nuclei fondamentali dell'edizione definitiva dell'Allegria, in quanto comprende 33 dei 74 testi di essa, la metà dei quali giugnono quasi inalterati all'edizione definitiva (1931 e poi 1942).
Verso libero.
Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde Di questa poesia mi resta quel nulla d'inesauribile segreto
(Il canto del poeta, nel comunicarsi agli uomini, in un certo modo si disperde, perde l'autenticità e la fissità della rivelazione originaria da cui promana, rischia di riconfondersi con l'universo delle parole mistificate del quotidiano. Di questa poesia resta un nulla, che però incita il poeta a successive avventure nell'ignoto.)
SONO UNA CREATURA
Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria disanimata
Come questa pietra è il mio pianto che non si vede
La morte si sconta vivendo
(Pietra carsica del S. Michele che il poeta paragona al suo pianto).
Nel 1956, appena dopo la festa dell' Epifania, a Cervia, Toni Comello e Walter Della Monica iniziarono dei trebbi poetici, organizzati in una piazza o in una grande sala: letture espressive miranti a rinnovare il gusto del pubblico per la poesia (italiana) antica e moderna. . Molti protagonisti della scena culturale italiana hanno riconosciuto il valore enorme di questa iniziativa. Come il poeta Giuseppe Ungaretti, uno dei ‘padri’ di questa avventura: . “Sento che il Trebbo farà miracoli per riportare gli uomini a non essere più tanto distratti dalla loro voce più profonda. Quel Trebbo che per l’irruenza del cuore di Comello e per la rara sensibilità di Della Monica, fa risuonare nelle piazze d’Italia, e torna a renderla familiare, la voce di mille anni di tradizione poetica italiana. Chi ha assistito ai Trebbi ha visto gli occhi del popolo farsi luminosi, occhi di innamorati. Sono anni che non si sentiva parlare di tanto fervore per la poesia”. . Anche Salvatore Quasimodo prese parte ad alcuni Trebbi, e così ne ha parlato: . “Il Trebbo poetico è una raffinatissima riunione popolare, dove Toni Comello e Walter Della Monica continuano la tradizione del canto della poesia sulle piazze. Ho assistito ad alcuni di questi Trebbi, veri Consigli del Popolo”.
EUGENIO MONTALE nato a Genova nel 1896 e morto a Milano nel 1981 a 85 anni.
Poeta e critico italiano.
Cominciò a frequentare l'istituto tecnico presso i Barnabiti, ma per motivi di salute lasciò la scuola e proseguì gli studi privatamente.
Del 1916 è la sua prima poesia, Meriggiare pallido e assorto, che nel 1925 sarebbe confluita in Ossi di Seppia, una raccolta che rielabora in forme e contenuti del tutto originali la lezione poetica di Giovanni Pascoli, di Gabriele d'Annunzio e dei poeti della rivista "La Voce".
Lo stesso titolo è ricoo di implicazioni simboliche sia a livello contenutistico, sia sul piano formale: la densa realtà del mondo è vista negli oggetti più insignificanti e apparentemente inutili, proprio come gli "ossi di seppia" che si trovano abbandonati sulle spiagge; nello stesso tempo l'osso simboleggia la scabra essenzialità scheletrica dello stile, spogliato dall'enfasi retorica dannunziana.
Durante la prima guerra mondiale Montale combattè in Trentino; tornato a Genova nel 1919, riprese a scrivere.
Nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce e pubblicò sulla rivista "Esame" l'articolo Omaggio a Italo Svevo, il primo riconoscimento ufficiale del mondo letterario italiano allo scrittore triestino.
L'anno dopo venne invitato dallo stesso Svevo a Trieste e qui conobbe Roberto Bazlen, Umberto Saba, Virgio Giotti, Silvio Benco.
Poco prima di trasferirsi a Firenze divenne direttore (1928) del Gabinetto Vieusseux, ma, per il suo dichiarato antifascismo, nel 1938 perse l'incarico.
In quegli anni collaborò a numerose riviste - "La fiera letteraria", "Solaria", "Pegaso" - e strinse amicizia con Elio Vittorini, Guido Pioveme, Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi e Vasco Pratolini.
Nel 1939 uscirono Le occasioni, poesie in parte già precedentemente pubblicate su riviste, che segnarono il distacco dalla matrice ligure autobiografica.
Il cupo pessimismo già evidente nei versi delle Occasioni, di poco anteriori allo scoppio della seconda guerra mondiale, si definisce ulteriormente nella breve raccolta Finisterre (pubblicata in Svizzera nel 1943).
Dopo la guerra e la breve esperienza politica militante nelle fila del Partito d'azione, Montale divenne per un breve periodo condirettore della rivista "Il mondo".
Nel 1948, assunto come redattore al "Corriere della sera", si trasferì a Milano.
Nel 1956 uscì La bufera e altro, che comprende anche le poesie già comparse in Finisterre.
La "bufera", cioè la guerra intesa come catastrofe della storia e della civiltà e simbolo dunque di una disperata condizione umana e personale, appare al sentimento del poeta dotata di una capacità distruttiva cui soltanto la memoria può fare da baluardo.
Le successive raccolte (Satura, 1971; Diario del '71 e del '72, 1973; Quaderno di quattro anni, (1977) segnarono l'adesione di Montale a forme antiliriche che registrano momenti di desolata solitudine.
Montale, che ottenne il premio Nobel per la letteratura nel 1975, è noto anche come traduttore, sprattutto di autori inglesi, tra i quali Shakespeare, T.S. Eliot, Gerard Manley Hopkins, Herman Melville, Eugene O'Neil.
La sua opera in prosa comprende scritti autobiografici e resoconti di viaggio, come Farfalla di Dinard (1956) e Fuori di casa (1969), e saggi racconti nei volumi Auto da fé (1966) e Sulla poesia (1977)
RIASSUNTO
1896 - Nasce a Genova, famiglia ricca, quindi per tutta la vita non ha avuto bisogno di lavorare.
Figlio di Domingo Montale. importatore di resine e di prodotti chimici.
Non ha mai eseguito regolatamente gli studi.
1916 - Prima poesia - MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO (dal mezzogiorno in poi)
Questa lirica, una delle prime di Montale, (1916), esprime già chiaramete la sua desolata concezione della realtà, non in forma concettuale, ché assurda, illogica è, per il poeta, la vita, e sfugge ai tentativi della ragione di definirla, ma calata in un paesaggio elementare, intensamente allusivo.
E' un meriggio dìestate, arido, arroventato dal sole, che sembra folgorare gli oggetti, dissolverli nel ritmo di una vita implacabile e misteriosa.
Appare una parvenza di movimento, in quel paesaggio impietrito: le formiche, le serpi, il mare; ma è un moto soltanto apparente, simile a quello che il Leopardi definiva, un incomprensibile e incessante girare delle cose, "per tornar sempre là donde son mosse", cioè verso il nulla.
Ma l'angoscia del poeta moderno ignora la rivolta dell'io leopardiano: si concreta in un triste meraviglia, in una raggelata scoperta dell'esistenza come un cammino assurdo, monotono e senza scampo.
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.
(l'io del poeta è come spento. La presenza dell'uomo diventa assenza, in un mondo privo di significato)
Nelle crepe dei suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano a sommo di minuscole biche.
(Nelle crepe del suolo o sulla pinta leguminosa rampicante, spiare le file delle formiche, il loro rompersi e intrecciarsi sulla somma di piccoli mucchi di terra - Vano affaccendarsi degli uomini)
Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.
(Il mare scintilla e sembra formato da scaglie. Non è un vero movimento, ma un trascolorare del sole, il canto delle cicale è come un tremulo scricchiolio, le cime rocciose e nude di vegetazione delle montagne)
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
(La vita è come una muraglia con dei cocci aguzzi di bottiglia sulla cima, arida e incolore, che ci è impossibile valicare per trovare, di là a essa, una spiegazione)
Stare in ozio nelle ore calde attorno al mezzogiorno sotto un sole chiaro, raccolto in meditazione presso un muro d'orto riscaldato dal sole e ascoltare tra i cespugli spinosi e gli arbusti secchi i versi dei merli e il rumore delle bisce che strisciano.
Nelle crepe del suolo o sullo stelo delle erbe a spiare le file di rosse formiche che ora si spezzano e ora si incrociano sulla somità di minuscoli mucchietti di terra.
Osservare, fra le fronde degli alberi o dei cespugli, il tremolio lontano delle onde che luccicano come scaglie di metallo, mentre dalle cime rocciose prive di vegetazione si levano i canti vibrati delle cicale.
E muovendosi nel sole che abbaglia, con triste meraviglia capire il significato della vita e la sua pena mentre si cammina lungo un muro insormontabile che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
1917 - E' richiamato sotto le armi (Fronte del Trentino)
1919 - Viene congedato
1921/1922 - OSSI DI SEPPIA (il poeta canta il mare e i paesaggi della sua Liguria, dando loro un valore filosofico ed esistenziale).
Infiniti rapporti, l'unico lavoro impiegato presso una editoria Direttore del Gabinetto Scientifico Letterario Viesseux fino al 1938 Antifascista Ha aiutato Saba, che era ebreo, a cambiare casa
1943 - Partecipa alle vicende della Resistenza
1967 - Senatore a Vita (Presidente Saragat)
10/12/1975 - Premio Nobel a Stoccolma per la letteratura
12/09/1981 - Muore
Vita produttiva e attiva - Punto di sostegno della nostra cultura
Prima raccolta - OSSI DI SEPPIA (1921/1922) - Sono le cose inutili
LE OCCASIONI (Torino 1939)
LA BIFERA E ALTRO (Venezia 1956)
Raccolte finali XATURA (1962 - piatto forte) e XENIA (1964/1966 - Doni che si offrivano all'ospite).
Scopre Svevo e recensisce la Coscienza di Zeno in modo favorevole.
Il motivo di fondo dellapoesia di Montale è una visione pessimistica e desolata della vita del nostro tempo, in cui, crollati gli ideali romantici e positivistici.
Tutto appare senza senso oscuro e misterioso.
Vivere è come andare lungo una muraglia che impedisce di vedere cosa c'è al di là ossia lo scopo e il significato della vita.
Ne d'altra parte c'è una fede religiosa o politica (cristianesimo marxismo) che possa consolare e liberare l'uomo dall'angoscia esistenziale; nemmeno la poesia può offrire all'uomo il suo aiuto.
L'unica cosa certa e che possa dire "Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" ossia gli aspetti negativi della nostra vita.
Di fronte al male di vivere non c'è altro bene che la divina indifferenza ossia il distacco dignitoso dalla realtà.
Ma questa indifferenza non è sempre concessa la poeta il quale è spesso preso dalla nostalgia di un mondo diverso, dell'ansia di scoprire "una maglia rotta nella rete che ci stringe, lo sbaglio di natura che ci metta nel mezzo di una verità".
Perciò la negatività di Montale è una negatività dialettica, perchè oscilla tra la constatazione del male di vivere e la speranza vana, ma sempre risorgente, del suo superamento (Ossi di Seppia).
SPESSO IL MALE DI VIVERE (1925/1926 - 30 anni)
Se un'esperienza certa può compiere l'uomo in questo universo d'evanescenti parvenze, è quella del vivere come il male.
Il dolore, la sofferenza di tutti gli esseri sono una realtà oggettiva, che possiamo constatare nella vita della natura, incrontrare ogni giorno: un ruscello impedito nel suo libero fluire; un cavallo stramazzato; una foglia inaridita.
Non esiste bene se non nell'indifferenza, in un puro esistere senza tempo, senza memoria, senza attesa, simile al dissolversi nella morte.
Spesso il male di vivere ho incontrato era il rivo strozzato che gorgoglia era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Il poeta non vede la foglia già arida, ma il suoinaridirsi, che dà senso d'un muto e lacerante tormento.
Divina indifferenza perchè essa non rappresenta per lui insensibilità, ma un essere puro.
La verifica interiore della intuizione tragica della vita avviene nella seconda raccolta LE OCCASIONI del 1939.
In essa Montale rievoca le occasioni della vita passata (amori, incontri di persone, riflessioni su avvenimenti, paesaggi) ricordate non per nostalgia del passato a consolazione del presente, ma per analizzarle e capirle nel loro significato simbolico, come altre esemplificazioni del male di vivere così che il recupero memoriale si risolve in uno scacco, in una conferma dellapropria solitudine e angoscia esistenziale.
Temi analoghi si trovano nelle due ultime raccolte LA BUFERA e ALTRO (1957) e XATURA (1971).
La sostanziale identità di temi discosta Montale da Ungaretti; mentre in questo ultimo assistiamo ad uno svolgimento iniziale che trasforma il poeta dall'uomo di pena in uomo di fede, Montale rimane sempre solo uomo di pena (parola nuda e scabra).
La coscienza tragica della vita come nulla e dell'assoluta vanità del mondo è centrale nella lirica montaliana.
Qui essa si concreta in una visione allucinata, rappresentatat con un'angoscia impietrica.
Il poeta immagina di vedersi compiere, un mattino, il miracolo: di riuscire, rioè, a percepire sensibilmente il solido nulla delle cose, di veder crollare dissolti gli oggetti, che sono pure parvenze sensorie, senza vera consistenza, e di cogliere, come in una rivelazione, il vuoto smisurato che sta al fondo dell'esistere.
FORSE UN MATTINO
Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto. ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Le Occasioni (1939): E' costituito da quattro sezioni di grandezza disuguale precedute da un curioso testo proemiale, Il balcone, per un totale di cinquantasette testi.
La casa dei doganieri
Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto. Libeccio sferza da anni le vecchie mura e il suono del tuo riso non è più lieto: la bussola va impazzita all’avventura e il calcolo dei dadi più non torna. Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende rara la luce della petroliera! Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende ...) Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
La poesia indica già dal titolo l’ambientazione del ricordo del poeta: questa casa, che è uno dei posti di guardia della dogana situati lungo la costa, si trova a Monterosso ed è il luogo in cui Montale ha conosciuto una giovane villeggiante di nome Arletta o Annetta, alla quale egli si rivolge nel componimento, che gli ispirò molte liriche nelle quali è presentata come una fanciulla morta giovane.
La realtà biografica è comunque probabilmente diversa da quella poetica: Annetta è stata identificata con quasi assoluta certezza in Anna degli Uberti, figlia di un ammiraglio romano nata nel 1904, la quale, fino al 1924, trascorse regolarmente le vacanze estive a Monterosso; dopo quella data i rapporti tra la ragazza e Montale cessarono quasi del tutto, sebbene Anna degli Uberti sia vissuta ancora molti anni, fino al 1959.
Nella prima strofa l’autore si rivolge direttamente alla ragazza annotando che ella non ricorda più la casa dei doganieri che si trova sul rialzo a strapiombo sulla scogliera e che l’aspetta ancora desolata da quella sera quando ella vi entrò irrequieta e vivace.
Questa strofa può avere anche un altro significato: la casa desolata potrebbe significare lo stato d’animo del poeta che ormai attende senza speranza il ritorno della ragazza e la ricorda irrequieta e vivace (nella similitudine i pensieri irrequieti della ragazza sono paragonati ad uno sciame di insetti sempre in movimento).
Nella seconda strofa il poeta afferma che il Libeccio, vento di sud ovest, soffia con violenza sulle mura della casa ormai abbandonata da molti anni ed oggi la ragazza non è più lieta come allora, la sua triste presenza è probabilmente solo nel ricordo del poeta.
Seguono due metafore: la bussola è rotta e non può più indicare con precisione la direzione; il calcolo dei punti segnati sulle facce dei dadi non da più il risultato giusto; l’impossibilità di affidarsi al mare e di leggere il futuro dei dadi stanno ad indicare lo smarrimento, l’incapacità dell’uomo di dare un senso ed una direzione precisa all’esistenza.
Negli ultimi due versi il poeta sembra certo che adesso la ragazza non ricordi essendo la sua memoria impegnata in ricordi di altri momenti e di altre situazioni; la memoria che come un filo che si arrotola nel gomitolo aggiunge fatti e ricordi ad altri fatti e ad altri ricordi.
Oggi è solamente il poeta che inutilmente cerca di rivivere quel lontano passato.
Nella terza strofa Montale insiste nel sottolineare che egli non ha dimenticato pur essendosi rotto il rapporto tra lui e la ragazza; l’immagine della banderuola posta sul comignolo, la quale dovrebbe indicare la direzione mentre in realtà gira senza mai fermarsi, è un’altra metafora per indicare lo smarrimento provocato dall’inesorabile fuga del passato.
Il poeta tiene ancora oggi un capo di quel filo dei ricordi ma la casa, il ricordo della casa, si allontana sempre di più nel tempo (il cui scorrere impietoso è simbolicamente rappresentato dalla banderuola che gira sul tetto).
Ormai il poeta tiene un capo di un filo che non porta a nessuno e da nessuna parte: ella, la ragazza del ricordo, è chiusa in chissà quale solitudine (come il poeta, del resto) e non è presenta nell'oscurità della casa (diroccata) dei doganieri, dove il poeta si trova.
Nell’ultima strofa il poeta afferma che la speranza di incontrare nuovamente la ragazza svanisce sempre più e lui non sa quale sia il modo per uscire da questo ricordo perché continuamente si forma e poi si infrange come l’onda che si forma e poi si rifrange sulla scogliera.
Il varco è qui? si chiede il poeta.
L'uscita che porti fuori dal rovente muro d'orto che non ha aperture e non è possibile scalare perché in cima ha cocci aguzzi di bottiglia?
Forse è qui il segreto per uscire dalla solitudine, penetrare il mistero dell'esistenza e delle cose?
Ma può concludere solamente ribadendo il dubbio assoluto su quale sia il vero significato dell’andare e del restare, della vita e della morte.
Fu dove il ponte di legno mette a Porto Corsini sul mare alto e rari uomini, quasi immoti, affondano o salpano le reti. Con un segno della mano additavi all'altra sponda invisibile la tua patria vera. Poi seguimmo il canale fino alla darsena della città, lucida di fuliggine, nella bassura dove s'affondava una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un'antica vita si screzia in una dolce ansietà d'Oriente, le tue parole iridavano come le scaglie della triglia moribonda.
La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare. E i suoi riposi sono anche più rari. Non so come stremata tu resisti in quel lago d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco d'avorio; e così esisti!
Ormai nella tua Carinzia di mirti fioriti e di stagni, china sul bordo sorvegli la carpa che timida abbocca o segui sui tigli, tra gl'irti pinnacoli le accensioni del vespro e nell'acque un avvampo di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende sull'umida conca non porta col palpito dei motori che gemiti d'oche e un interno di nivee maioliche dice allo specchio annerito che ti vide diversa una storia di errori imperturbati e la incide dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora! Ma è scritta già in quegli sguardi di uomini che hanno fedine altere e deboli in grandi ritratti d'oro e ritorna ad ogni accordo che esprime l'armonica guasta nell'ora che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde alloro per la cucina resiste, la voce non muta, Ravenna è lontana, distilla veleno una fede feroce. Che vuole da te? Non si cede voce, leggenda o destino. Ma è tardi, sempre più tardi.
"Dora Markus" è una delle poesie più celebri di Eugenio Montale.
Il suo fascino sta nella distanza di tempo in cui le sue due parti sono state composte:
la prima, che il poeta stesso in una nota all'edizione Einaudi delle "Occasioni" del 1939 dichiara "rimasta allo stato di frammento", risale al 1926 e ci mostra Dora, una austriaca presentatagli da Bobi Bazlen, da una prospettiva esistenziale.
Montale ne traccia il ritratto di donna inquieta, esule non solo dalla propria terra ma anche dalla propria vita, il cui cuore è "un lago di indifferenza", e che sembra affidare la propria salvezza all'immagine incantatoria di un portafortuna, quel topolino d'avorio celato nella trousse dei trucchi.
Dora è insomma la classica donna montaliana, distante dal mondo fino a incarnare la valenza di nume, il ruolo che rivestirà l'amata Mosca nelle poesie del dopoguerra.
La storia aleggia sullo sfondo, come un'ombra, in questo periodo di relativa calma tra le due guerre mondiali, non è che un presagio, un presentimento insito nei turbamenti del vivere, nei silenzi di Dora, affacciata alla spalletta di quel ponte di Ravenna; è in quella "primavera inerte, senza memoria" grigia e soffocata nella periferia di ciminiere e di fumo.
Passano tredici anni, sull'Europa soffia ormai il vento di un'altra primavera, quella hitleriana.
Montale dà "una conclusione, se non un centro" alla poesia.
La prospettiva ora è mutata: Dora Markus è soltanto un ricordo, appare in questi inspiegabili disguidi della memoria, è la storia a prendere il sopravvento sulle esistenze; l'inquietudine è per quella bufera che si agita nell'aria del 1939: presto la Germania nazista invaderà la Polonia e un'apocalisse si abbatterà sul mondo intero.
"La sera che si protende" sembra indicare proprio l'imminenza della guerra e "il palpito dei motori" è quello degli aerei, dei carri armati pronti a fare fuoco.
Dora deve fare i conti con il suo passato, con le scelte sbagliate che non si possono ormai più cancellare, con gli smacchi del vivere.
E deve fare i conti con il presente, che ha portato dalle glorie asburgiche degli antenati al nazismo, a quella "fede feroce".
Se nella prima parte la storia era un'ombra grigia sullo sfondo, qui è un immanente colorato di bandiere rosse con la svastica - l'anno prima l'Anschluss aveva unito l'Austria alla Germania: Dora si trova ancora una volta in una sorta di esilio.
E già suonano le sirene, crepitano i fucili, si prepara l'orrore dei lager: "Ma è tardi, sempre più tardi".
A partire dagli anni Cinquanta si profilò un gruppo di autori che interpretò in modo originale i lasciti dei poeti della prima metà del secolo.
Così è per Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Giovanni Giudici e, su un piano di maggiore elaborazione formale, Andrea Zanzotto.
La narrativa si sviluppò soprattutto negli anni Trenta nella misura della prosa d'arte, ma articolandosi anche in generi di confine come la letteratura di viaggio.
Dopo qualche caso abbastanza isolato (Rubè di Giuseppe Antonio Borgese uscì nel 1921) e l'elaborazione da parte di Massimo Bontempelli della poetica del "realismo magico", volta a disvelare l'aspetto fantastico della realtà, l'affermazione del romanzo si registra al tempo della ricostruzione con il movimento del neorealismo.
NEOREASLIMO - Secondo dopoguerra - L'interesse nuovo per la narrativa dell'immediato dopoguerra sembra nascere dalla volontà di raccontare ciò che parte della popolazione italiana ha vissuto fra guerra e guerra civile.
Le esperienze tragiche, ma originali, complesse e a volta esaltanti.
Il neorealismo è una corrente letteraria, sviluppatasi fra il 1956 e i primi del 1960.
Precedentemente era stato attribuito al film Ossessione (1942) di Luchino Visconti e quindi a Ladri di biciclette di Vittorio De Sica a Paisà di Roberto Rossellini
Il Neorealismo oscillò fra populismo e volontà ideologizzante, come nel caso di Vasco Pratolini, che con la trilogia Metello (1955), Lo scialo (1960), Allegoria e derisione (1966), volle abbracciare la storia italiana e cogliere il formarsi di una coscienza di classe nel popolo tra la fine del 1800 e il 1945.
Ai modelli degli anni '30, ci si rifece soprattutto al Pavese di Paesi tuoi (1939) e al Vittorini di Conversazione in Sicilia.
Altri maestri furno: Verga e gli Americani; in misura minore Moravua e Bernari.
I temi prescelti furono: Guerra e Resistenza, lotte contadine e operaie.
Ma soprattutto il Neorealismo fu una tematica: Guerra, Fascismo, Resistenza, Mezzogiorno, Risorgimento rivisitato.
Elio Vittorini - Uomini e no (libro sulla Resistenza)
Il libro comincia con l’incontro dopo dieci anni fra Berta ed Enne 2: dopo un po’ di conversazione i due cominciano a parlare del passato e a questo punto svelano di essere amanti da molti anni. L’amore travagliato fra i due è solamente una cornice per lo svolgimento della vicenda, che invece si basa fondamentalmente sullo scontro fra partigiani e nazisti nel Nord Italia. Infatti quando incontriamo Enne 2 è in procinto di progettare una spedizione segreta contro i nazi-fascisti, capeggiati da Cane Nero e Clemm. Dopo numerose morti, che vedono protagonisti soprattutto rappresentanti della fazione partigiana, Enne 2, deluso da Berta che per l’ennesima volta decide di lasciarlo per tornare con il marito con cui vive da dieci anni, si lancia in un’impresa contro Cane Nero, che si rivelerà per lui fatale. Il libro, nonostante la tragedia finale si conclude relativamente felicemente, in quanto sia Clemm che Cane Nero verranno uccisi dai compagni del protagonista. Il narratore è esterno e non interviene mai con giudizi personali all’interno della vicenda, e nemmeno commenta per bocca dei personaggi, ma ci sono nell’opera sei sezioni dedicate allo stesso autore, che separatamente dal racconto opera delle digressioni, proponendo riflessioni o facendo commenti a volte riguardanti il racconto e a volte riguardanti giudizi morali sul comportamento dei protagonisti.
Cesare Pavese - La casa in collina
Protagonista e narratore delle vicende è Corrado, un docente torinese che per sfuggire ai bombardamenti che imperversano nella città si è trasferito in collina presso una donna, Elvira, e la madre di lei...
Giacomo De Benedetti - 16 ottobre 1943 (rastrellamento degli Ebrei in Roma)
[size=3]Il saggio comincia la narrazione con l’incontro dell’intera comunità alla sinagoga il venerdì sera prima del 16 ottobre, mentre gli ebrei festeggiano il loro giorno sacro. È allora che Celeste, una donna abitante in trastevere e con alcuni parenti nel ghetto arriva dicendo a tutti di scappare poiché i tedeschi sarebbero venuti per portarli via dalle loro case. Ma la l’intera sinagoga la deride e non le presta sufficiente attenzione, questo perché una ventina di giorni prima il maggiore tedesco Kappler aveva promesso che: se avesse ricevuto dalla comunità giudaica 50 Kg d’oro, loro sarebbero stati al sicuro. Gli ebrei portarono anche più oro rispetto alla somma pattuita, grazie all’aiuto di alcuni ariani. Gli ebrei sbagliarono a fidarsi, infatti la mattina del 16 ottobre 1943 come aveva detto donna Celeste i nazisti arrivarono e portarono via dal ghetto gli ebrei. Alla fine della giornata erano stati deportati circa mille ebrei, tra cui donne vecchi e bambini che non si erano nascosti pensando che i tedeschi volessero solo gli uomini per la guerra o per i lavori forzati. Nessuno cercava di opporre resistenza non sapendo dove venivano portati. Alla fine di questa prima cronaca il cui titolo è omonimo del libro, si aggiunge una seconda cronaca intitolata otto ebrei, che parla del processo di un commissario di polizia, che per provare la propria fede antifascista, afferma di aver tolto dalla lista per l’eccidio delle fosse ardeatine il nome di otto ebrei scelti a caso. In entrambi i saggi gli avvenimenti sono presentati come in una cronaca da un testimone che non ha preso parte alla deportazione, ma ne ha seguito tutti i passaggi.
In questo libro Carlo Levi ci narra le vicende da lui vissute durante i due anni di confino ad Aliano, un paese sperduto tra i monti della Lucania. Durante la sua permanenza, può notare lo stato di precarietà e di miseria in cui la gente del posto era costretta a vivere. Levi con le persone più povere instaura un rapporto di amicizia e di simpatia e presto si troverà a stretto contatto con loro a causa del lavoro spontaneamente attribuitogli dai contadini quello di medico (professione che lui pur laureato non esercitava). Non era felice di praticare quest'attività perché ciò gli comportava una certa rivalità con i due medici del paese. Ma proprio in questa attività finì per scoprire alcuni aspetti tragici e profondamente umani dei contadini, così come la cultura stracciona e arretrata dei professionisti locali medici e farmacisti. Di questi i contadini diffidavano, ricambiati, invece gran fiducia avevano i poveri contadini del dott.Levi.(Galantuomini erano chiamati gli esponenti della piccola borghesia locale) Levi era rispettato da tutti soprattutto per la sua preparazione culturale. Il podestà Magalone e sua sorella, donna Caterina, erano contenti e fieri di averlo nel loro paese. Levi resterà ad Aliano all'incirca fino al 1936. Nel 1934, era stato arrestato a Torino per la prima volta a causa della sua attività política (anti-fascista), quale responsabile del movimento “Giustizia e Libertà” . Nel 1935, viene arrestato per la seconda volta e inviato al confino prima a Grassano, e poi a Gagliano. “Sono arrivato a Gagliano un pomeriggio di agosto, portato da una piccola auto sgangherata. Avevo le mani impedite, ed accompagnato da due robusti rappresentanti dello Stato, dalle bande rosse ai pantaloni e dalle facce inespressive”. Levi lasciato Grassano, prima tappa del suo confino, si diresse ad Aliano scortato da due carabinieri. [...]
“Se questo è un uomo” di Primo Levi è il romanzo in cui l’autore racconta la sua esperienza nei campi di concentramento, durante la Seconda Guerra Mondiale. Sottratto alla sua vita quotidiana, Primo Levi viene condotto in questo luogo di morte, costruito per annientare la dignità umana. Il lager nazista è pensato appositamente per trasformare gli uomini in vere e proprie bestie, costretti a lottare gli uni contro gli altri per la sopravvivenza. I suoi abitanti sono obbligati ai lavori forzati, denutriti e privati persino del nome, spogliati di qualsiasi bene e divisi dalle proprie famiglie. La vita nel lager è descritta come una realtà incredibilmente alienante, in cui gli uomini e le donne subivano ogni tipo di sopruso. Torturati, costretti a soffrire ogni tipo di dolore, da quello fisico a quello mentale e morale, sempre più massacrante, le persone si trascinano nel campo di concentramento fino a non provare più emozioni. E’ così che l’autore di “Se questo è un uomo” descrive il proprio tempo trascorso nei lager. Il romanzo è estremamente toccante, perché al di là delle crude descrizioni di ciò che ha visto accadere ai propri compagni di sventura, al sangue versato, ai bisogni primari insoddisfatti, l’autore racconta di una coscienza che cerca di reagire. Primo Levi racconta di come, in un luogo in cui la morte era una compagna di viaggio quasi desiderata, per quanto tremende erano le condizioni di vita, scopre un’incredibile forza che smuove una passione naturale e pura per la vita. Il coraggio, la necessità di non lasciarsi andare, un amore celato dalla sofferenza, ma pur sempre esistente, lo hanno indotto istintivamente a reagire, e questa reazione ha trovato significato nella scrittura, in parole da nascondere perché, nel campo, non era concesso neppure scrivere. Primo Levi oltre a raccontarsi, cerca di dare una spiegazione, una parvenza di ragionamento per trovare la causa che ha spinto degli essere umani ad annullare la personalità, l’individualità e l’esistenza dei loro simili. Nonostante la brutalità, dietro quest’azione violenta che priva lentamente della vita un altro individuo, non ci sono animali domati soltanto dall’istinto, ma un uomini, persona qualunque, di quelle che s’incontrano per strada o al lavoro. Non c’è nessuna forma di normalità dietro il dolore gratuito che viene inflitto, ed è questo il male radicale, quello perverso, che non può essere spiegato né gestito, ma che in qualche modo deve essere contenuto dentro il petto di chi ha subito l’esproprio della propria anima. E quando il protagonista di “Se questo è un uomo” riesce a sopravvivere e ad uscire da Auschwitz con le proprie gambe, non riesce a lasciare la propria sofferenza dietro il filo spinato del campo di concentramento, ma se lo porta addosso, oltre, per tutto il tempo che gli resta da vivere.
Lo stile di Primo Levi è asciutto, descrittivo, molto diretto, tipico di chi ha la necessità di far arrivare immediatamente un concetto ai suoi lettori. E il pensiero di quest’uomo sopravvissuto alla più grande sciagura della storia d’Europa, resta impresso negli occhi e nel cuore di chiunque legge questo libro.
Scritto da Primo Levi tra il 1961 e il 1962,La tregua è un racconto-testimonianza. Alcuni capitoli erano già stati scritti nel 1947-48. La base di questo nuovo racconto, intrapreso nei primi del 1961, è costituita da una traccia stesa all’inizio del 1946: «Avevo, del viaggio di ritorno, un puro appunto come dire, ferroviario. Un sorta di itinerario: un giorno al posto tale, il giorno tale al posto tal’altro. L’ho ritrovato e mi è servito come traccia, quasi quindici anni dopo, per scrivere La tregua». (Volume I° pagina 1418). Ecco l’elenco delle date di scrittura dei vari capitoli: Il disgelo e Il Campo grande 1947 – 48; Il greco marzo 1961; Katowice dicembre 1961; Cesare febbraio 1962; Vittoria marzo 1962; I sognatori marzo 1962; Verso sud maggio 1962; Vecchie strade giugno 1962; Il bosco e la via luglio 1962; Vacanza agosto 1962; Teatro agosto 1962.
La tregua è composto da 17 capitoli della stessa lunghezza e di media lunghezza ed è introdotto da una composizione poetica che riveste per il libro una grande importanza, per diversi motivi. Innanzi tutto essa è stata scritta l’11gennaio 1946 cioè il giorno dopo di Shemà, la lirica che fa da introduzione a Se questo è un uomo. Vi è quindi un elemento di simmetria e di raccordo con il precedente racconto. Già Se questo è un uomo aveva descritto l’attesa dell’alba e il comando sommerso ma non inatteso. La poesia sintetizza così anche lo spirito del libro che, pur presentando aspetti nuovi, si riallaccia al messaggio finale di Se questo è un Uomo. Infine la poesia viene ripresa nella pagina finale del libro e chiude il cerchio. [...]
Beppe Fenoglio - I 23 giorni della città di Alba (partigiani)
Autore: Beppe Fenoglio Casa editrice: Einaudi. Anno di edizione: 1975 Notizie sull'autore: Giuseppe Fenoglio nacque ad Alba, in provincia di Cuneo, il 1 marzo 1922 e morì tra il 17 e il 18 febbraio 1963 di cancro ai bronchi, presso l'ospedale Le Molinette di Torino. I suoi genitori, entrambi piemontesi, traevano sostentamento da una macelleria. Le sue numerose opere fanno parte di quella corrente letteraria che ha caratterizzato il secondo dopoguerra: il neorealismo Le sue opere principali sono: I ventitre giorni della città di Alba (1952) La malora (1954) Primavera di bellezza (1959) Un giorno di fuoco (1963) Una questione privata (1965) Il partigiano Johnny (1968) La paga del sabato (1969) Un Fenoglio alla prima guerra mondiale (1973) La voce della tempesta (1974) Nella prima metà del libro " I 23 giorni della citta' di Alba" sono narrate varie vicende accadute a dei partigiani mentre nella seconda metà dominano storie di amore, di tradimenti, di famiglie umili, aventi tutti come sfondo l'ambiente contadino. Ecco i vari racconti: I ventitre giorni della città di Alba: in questo capitolo è esposto con gran cura dei particolari il breve episodio della seconda guerra mondiale quando i partigiani, dopo la momentanea resa della repubblica, hanno mantenuto il dominio di Alba per ventitre giorni: dal 10 ottobre al 2 novembre 1944. L'andata: questa è la tragica missione di una pattuglia partigiana composta da: Bimbo (il più giovane), Colonnello, Treno, Biagino e Negus (il più anziano). L'obiettivo era la cattura di un sergente fascista tramite l'aiuto della sorella di Bimbo. I cinque partigiani catturarono il nemico, ma dovettero ucciderlo per un tentativo di fuga, e furono uccisi a loro volta da una ronda della cavalleria fascista. Il trucco: questo è la storia di alcuni partigiani costretti ad uccidere, su ordine del loro capitano, un soldato tedesco fatto prigioniero nella stalla di un altro partigiano, detto il Moro. I tre discutono sul luogo e su chi, tra loro, avrebbe fucilato il nemico all'insaputa di Rene', Giulio e Napoleone, così si chiamavano, ma qualcuno, i partigiani di Neviglie, li aveva preceduti e insieme a Moro avevano portato via il soldato tedesco al di là della collina. Solo Rene' si accorse appena in tempo della fuga e decise di raggiungere i fuggitivi, ma quando Rene', Giulio e Napoleone giunsero a destinazione, tutto sembrava essersi già compiuto: i partigiani di Neviglie stavano già tornando indietro ed un contadino stava coprendo una fossa. Gli inizi del partigiano Raoul: è la storia di Sergio P. che decise un giorno di arruolarsi nei partigiani contro il consenso della madre. Quando, però, si ritrovò circondato di volgari partigiani pensò di aver fatto uno sbaglio: sarebbe dovuto diventare un altro, un animale. Alla fine accettò la sua condizione senza accorgersene.[...]
Una storia di gente semplice ambientata in Val d’Elsa alla fine della seconda guerra mondiale, in un periodo di forti tensioni politiche che spesso sfociavano nella violenza. Ed è proprio uno di questi scontri al centro de La ragazza di Bube. Pubblicato nel 1960, il romanzo è il ritratto di un’Italia che non c’è più, in cui i fratelli maggiori badano ai più piccini, i contatti con i coetanei avvengono nel cortile di casa, i giovani si danno ancora del lei e l’unico svago è il cinema domenicale. Ebbe un successo travolgente e immediato. Mara, ragazza di sedici anni, indipendente, testarda, sognatrice, ma anche immatura e inconsapevole è la vera protagonista del romanzo. Vive con il padre comunista militante, la madre e un fratello a Monteguidi. Bube è un ragazzo magro, timido, dall’infanzia difficile, sostanzialmente impreparato alla vita. E’ stato amico fraterno e compagno del fratellastro di Mara, Sante, ucciso dai tedeschi durante la Resistenza. Bube ha trovato nella lotta un’immagine di sé che lo soddisfa, ma che allo stesso tempo lo chiude in uno stereotipo. Quando Mara e Bube si conoscono nasce subito una simpatia. Per Mara, la guerra, l’arrivo degli Americani, i partigiani sono quasi uno spettacolo di cui godere con la stessa curiosità e avidità di un bambino. Ed è un gioco persino assistere alla vicenda di Bube innamorato di lei, un campo in cui sperimentare la propria civetteria e di cui potersi vantare con le amiche. Mara quasi senza accorgersene, senza una esplicita scelta si ritrova ad essere fidanzata con questo ragazzo che si atteggia a uomo. Bube è innamorato di lei, ha combattuto e sofferto con Sante ed è affascinante con la sua aria indifesa ed agguerrita al tempo stesso: il loro legame è perciò una naturale conseguenza. Ma Bube si rende colpevole di un grave reato: durante un acceso litigio uccide il figlio del maresciallo. Il ruolo di duro, persino di vendicatore, acquisito nel periodo della Resistenza, lo ha intrappolato ancor prima della galera. Questo crimine infatti lo porterà in carcere per molti anni e segnerà in maniera indelebile la vita dei due giovani. Mara si ritrova legata a lui per la vita, in un ruolo che assorbe e comprende tutta la sua esistenza. Non più Mara, ma la “ragazza di Bube”. Queste le parole che rivolge a Stefano, un ragazzo a cui si era legata in assenza di Bube: “Stefano, io non so se amo te o Bube; ma i miei sentimenti non c’entrano nella decisione che ho preso: io… sono la ragazza di Bube”. Ecco era così: lei era la ragazza di Bube; non poteva abbandonarlo; sarebbe stata un’inaudita vigliaccheria se lo avesse abbandonato ora che era in galera. Decide di rimanergli accanto e di consolare il suo uomo, amareggiato, sconfitto, deluso dagli amici e dalla politica. Abbandona il mondo di sogni, fantasticherie e frivolezze dell’adolescenza e diviene, attraverso anni di dolore e sofferenza, una donna matura capace di guardare alla vita con coraggio e onestà. Reagisce alle avversità con energia e realismo. Il suo è un percorso difficile, sofferto, impegnato. Cassola con il suo linguaggio pulito, asciutto, sobrio ed elegante ha creato uno dei personaggi femminili più belli della nostra narrativa. Questo libro mi è piaciuto molto, ma mi ha lasciato una grande malinconia, la sensazione di tante vite ingannate, sconfitte dal trascorrere degli anni e di giovinezza irrimediabilmente perduta. “È cattiva la gente che non ha provato dolore. Perché quando si prova il dolore, non si può più voler male a nessuno”
Agnese è un donna senza apparenti qualità, non è bella, non è un eroina. Per caso, dopo la morte del marito, si trova a far parte della Resistenza, che ebbe un ruolo determinante nella lotta ai tedeschi e ai fascisti. La battaglia di Agnese è silenziosa ed è inserita in uno scenario del nord Italia che è come lei, gelido e nebbioso, dai contorni indefiniti, sorprendente quando la nebbia dirada, paludoso e minato. Una terra difficile che rende la lotta ancora più aspra. Tutti i personaggi "minori" ruotano attorno alla figura di Agnese e sembrano quasi avere un ruolo freudiano nella vicenda, in cui spesso la protagonista sogna, mitigando i limiti di quella terribile realtà di guerra. I tedeschi sono spietati e la gente comune vive con l'illusione che l'arrivo degli alleati metterà fine ai loro dolori. La guerra è terribile da qualunque parte si guardi ma per scongiurarne una nuova, bisognerebbe insegnare alle nuove generazioni tutti i patimenti e la distruzione che essa porta. Dovremmo essere più severi, oggi, nei confronti di tutti; nei confronti di chi ci governa e di chi ci vorrebbe governare, dovremmo essere esigenti, non solo per tutelare i nostri interessi, ma anche per rispetto di chi, in tutte le guerre, ha pagato con la vita la difesa della libertà. Un libro commuovente e poetico, lucido e spietato che ti rende triste fino all'ultima pagina nonostante la preannunciata morte, nel titolo, della protagonista.
Spaccanapoli di Domenico Rea […] è un libro ispirato da una giocosa nevrastenia […] interessante, in alcuni tratti certamente bello e quasi sempre sorretto da una apprezzabile vivacità d’intelligenza […] Di Rea meravigliano favorevolmente le “trovate”, molte delle quali pescate nel repertorio dei luoghi comuni eppure enunciate con tanta spontaneità da sembrare inventate in quell’attimo» [S. Antonielli, «La Fiera letteraria», 20 giugno 1948]. «Le sue creature […] non parlano, ma “cantano”, cantano col sangue e le fibre del proprio corpo; e qualcuno risponde loro dalle remote e pur vicine plaghe dell’universo. E pochi altri, così bene come il Rea, sanno comunicarti, nel breve giro di una inflessione o di un’immagine sfavillante, il brivido occulto e il palpito, che turbano, ma consolano, dell’antica natura. Allorché la fantasia del Rea si tuffa in questa suprema innocenza di spirito, finanche la oscenità […] si purifica nel ritorno all’ingenua naturalità primitiva, di qua dal peccato e dal convenzionale decoro» [P. Lamanna, «La Rassegna d’Italia», novembre 1948]. «Rea nei racconti di Spaccanapoli tenta di conciliare, in una sorta di barocco napoletano, sboccato, sbracato e truculento, un crudo verismo all’americana con un espressionismo di gusto pittorico, un bozzettismo a fondo dialettale con un immaginismo pirotecnico […] Non che l’amalgama sempre riesca: anzi, l’artificio è spesso così scoperto da rendere stucchevoli gli effetti. Ma certe facoltà inventive e verbali di questo giovane sono pure da tener presenti» [A. Bocelli, «La Fiera letteraria», 2 gennaio 1949]. «A lettura conclusa, anche il lettore meno provveduto sol che ripensi un momento qualcuno dei protagonisti delle otto storie […] vedrà tutta una folla gesticolante e convulsa muoversi intorno ad esso […] Perché Spaccanapoli è un mondo anzi un’umanità: più patetica e miseranda, quanto più si arrende al riso e alla beffa […] E perciò salutiamo con gioia la nascita di questo singolare scrittore, che si colloca sin dalla sua prima opera nella schiera folta ma talvolta esangue dei narratori italiani, con una personalità precisa e mordente e un mondo poetico illuminato da intima ispirazione» [M. Prisco, «La Voce», 20 marzo 1948].
"Immaginate un libro in cui l'abitante di una casa bombardata si adatta a vivere nella buca dell'esplosione. Una famiglia presso cui per 30 anni si installa un guappo e non se ne va più. Un giocatore di carte incallito che avendo perso tutto è costretto dalla moglie a giocare solo con il figlio del portinaio. La fenomenologia del "pernacchio". Una zona temporaneamente autonoma in cui impazza la maschera Totò, che infatti ha interpretato il capolavoro di Marotta." (Giuseppe Genna)
Il libro parla della storia di Pin, un ragazzino solo e desideroso di appartenere al mondo degli adulti. Nonostante il suo modo di fare scherzoso, viene spesso messo in ridicolo dai grandi a causa della sorella prostituta ed è scansato dai bambini per le storie sconce che racconta. Messo alla prova da quelli dell’osteria ruba la pistola, una P38, al “Tedesco” mentre faceva l’amore con la sorella. Decide però di non rivelare il suo coraggioso gesto ai compagni e di nascondere la pistola in campagna, in un posto che solo lui conosce, il posto dove fanno il nido i ragni. Dopo averla sepolta viene però trovato dai soldati tedeschi con il cinturone e pertanto viene arrestato. In prigione Pin incontra Lupo Rosso, un partigiano di grande fama, con il quale stringe subito amicizia. Grazie all’aiuto di Lupo Rosso, Pin riesce a scappare, ma una volta fuori prigione si perde ed inizia a vagare da solo nel bosco, fino all’incontro con “Cugino” che lo porta al suo accampamento e lo presenta alla banda partigiana del “Dritto”. Qui Pin si sente finalmente nel suo mondo, fra i grandi che gli fanno cantare canzoni e che dicono cose sconce. Pochi giorni dopo però scoppia un incendio nell’accampamento a causa di una distrazione del Dritto e tutti sono costretti a fuggire e a ripararsi in un vecchio casolare con il tetto sfondato. Qui arrivano il comandante Ferriera e il commissario Kim che, saputo di quanto successo, vanno a trovare gli uomini dell’accampamento, anche per riferire di una battaglia che si sarebbe svolta in un monte lì vicino e che avrebbe richiesto la partecipazione di tutti. Al ritorno degli uomini dalla battaglia, conclusasi con esito incerto, Pin decide di canzonarli, come suo solito, e giunto al turno di Mancino, il cuoco, rivela quanto successo tra sua moglie Giglia e il capitano, che interviene per farlo zittire, quasi rompendogli le braccia. Pin, offeso e arrabbiato, fugge e ritorna nel sentiero dei nidi di ragno, dove scopre che Pelle, un giovane partigiano giustiziato dai compagni perché faceva la spia, aveva rubato la sua pistola. Privato dell’unica cosa che gli rimaneva torna dalla sorella dove ritrova la tanto amata P28. Dopo averla presa però fugge di nuovo rimanendo solo e sconsolato. Vagando per i suoi luoghi ritrova Cugino, il quale si interessa alla pistola e ai nidi di ragno, ma soprattutto condivide il rifiuto per le donne. Pin ha finalmente trovato l’amico ideale e non è più solo. Il libro si conclude con la frase: “E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano”.
Legato all'epoca della Resistenza, esso si aprì alla testimonianza personale, alla memoria, al documento e al racconto.
Ne discese un vero e proprio boom di romanzi e racconti interessanti, di autori come Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Ignazio Silone (Fontamara), Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Italo Calvino e altri ancora, una ricchezza di proposte accentuata dal gran numero di film prodotti con intenzioni espressive analoghe.
Da allora la narrativa di ampio respiro si affermò anche in Italia, come testimoniano alcuni casi eclatanti.
Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ottenne inaspettatamente un grande successo di pubblico, favorito anche dalla versione cinematografica del regista Luchino Visconti.
La storia di Elsa Morante (1974) uscì su insistenza dell'autrice direttamente in edizione economica, riscuotendo notevole successo.
Il nome della rosa (1980) lanciò Umberto Eco come primo autore italiano di best-seller internazionali, un ruolo recentemente interpretato da Susanna Tamaro: Và dove ti porta il cuore (1994) ha venduto, solo in Italia, quasi tre milioni di copie, ed è stato tradotto in decine di paesi stranieri.
Il romanzo, tuttavia, non copre tutta la famiglia dei testi in prosa.